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Un pianista tra jazz e rock |
Herbie Hancock |
Nel corso della sua carriera Herbie Hancock ha alternato il pianoforte acustico agli strumenti elettrici ed elettronici, avventurandosi in territori contaminati tra jazz, funky, disco e rock. |
Hancock, o il mestiere della musica
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Chi torna a New York dopo qualche anno di assenza si rende conto con un certo stupore che una parte della città che conosceva è scomparsa e che un'altra parte di città è cresciuta nel frattempo al suo posto, come se la metropoli fosse continuamente sottoposta a frettolosi make-up. C'è insomma una New York da scoprire e una da ricordare, e magari da rimpiangere con nostalgia; questo vale anche per locali e punti d'incontro storici come la Russian Tea Room, il celebre ristorante di Manhattan situato a pochi metri dalla Carnegie Hall. Gli intellettuali, i musicisti, i personaggi dello spettacolo e della cultura che ne affollavano le scale al termine dei concerti alla Carnegie o degli spettacoli teatrali nella vicina Brodway hanno forse versato qualche lacrima quando la notte di capodanno del 1996 ne è stata annunciata la chiusura e, anche se il locale è già stato rilevato da un altro proprietario che ha promesso di riaprirlo nel giro di pochi anni, la sua atmosfera "vecchia Europa" è persa per sempre, visto che sopra le sue sale verranno costruiti altri dodici piani.
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Molti cambiamenti hanno del resto riguardato, negli anni ottanta e novanta, anche i luoghi deputati al jazz. Alcuni club di ottimo livello, come Bradley's e il Fat Tuesday, hanno recentemente chiuso i battenti; in compenso si parla di riaprire un locale storico come il Minton's Playhouse di Harlem mentre il Village Vanguard, dove hanno suonato tutti i grandi del jazz, sta vivendo un periodo di notevole vivacità. Altri locali vengono invece sottoposti a lavori di ristrutturazione o di ampliamento: tra questi lo Sweet Basil, il club del Greenwich Village fondato nel 1976 e reso famoso dai concerti del lunedi della big band di Gil Evans, e la Knitting Factory di Soho, un locale d'avanguardia che si affaccia sulla Leonard Street. Ci sono anche nuove aperture e tra queste l'Iridium, un club che sta crescendo bene ed è già fra i posti più frequentati di Manhattan. In tutti questi luoghi si può ascoltare un jazz di buon livello ma pittosto tradizionale. Se invece si va in cerca di qualcosa di nuovo è meglio raggiungere il Cornelia Street Cafè, un piccolo club nel quale spesso si esibiscono artisti molto originali, o ancora il Village Gate sulla Cinquantaduesima Strada, dove il jazz accetta di mescolarsi con musiche di più largo consumo, ma di alta qualità. |
HANCOCK, O IL MESTIERE DELLA MUSICA Lo Sweet Basil Uno dei protagonisti della musica contaminata degli ultimi decenni è stato Herbie Hancock, giunto a New York all'inizio degli anni sessanta. Hancock è uno strano musicista: studi di musicista classico, un'esibizione come solista a undici anni con la prestigiosa Chicago Symphony Orchestra, poi il jazz sofisticato di Miles Davis e infine la musica di consumo più plateale. Secondo lui "La musica è arte, ma anche mestiere. Penso che il musicista debba mettersi su più fronti, buttarsi in imprese diverse. MAgari anche sbagliando. Così non trovo scandaloso suonare jazz con il trio e magari il giorno dopo riunire una formazione funky". Non aggiunge che, oltre a possedere un diploma di pianoforte, ha anche una laurea in ingegneria e che forse proprio da qui nasce la sua curiosità per gli strumenti elettrici ed elettronici.
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Hancock scoprì il jazz attraverso il tumultuoso pianismo di Oscar Peterson, erede di Art Tatum, e quello più intimista ma banale e vicino alla musica d'intrattenimento di George Shearing, l'inglese che aveva conquistato l'America con un fortunato quintetto nel quale figuravano un pianoforte, un contrabbasso, una chitarra, una batteria e un vibrafono. Fin dagli inizi, dunque, Hancock era attratto dalle due possibili facce del jazz, quella per così dire d'arte e quella di consumo. I suoi esordi come jazzista erano comunque avvenuti in grande stile: nel 1960 aveva suonato con il sassofonista Coleman Hawkins e l'anno successivo, arrivato da poco a New York da Chicago, si era esibito con il gruppo del trombettista Donald Byrd e aveva cominciato a incidere con molti jazzisti noti. Ma herbie non aveva spirito gregario: così, già nel 1962, riunì un complesso suo con Freddie Hubbard alla tromba, Dexter Gordon al sassofono tenore, Butch Warren al basso e Billy Higgins alla batteria. Nel maggio di quell'anno il quintetto registrò per la Blue Note Takin'off, ottenendo subito un grande successo grazie a Watermelon Man, uno dei brani inclusi nell'album.
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L'incontro determinante per la carriera di Hancock fu comunque quello con Miles Davis, avvenuto nei primi anni sessanta. "Ho conosciuto Miles per caso" ha in seguito raccontato il pianista. "Naturalmente sapevo già tutto di lui, dei suoi dischi con parker, di quelli che hanno dato vita al cool. Era già un mito per tutti noi. Arrivato da Chicago con alcuni amici a bordo di una vecchia Ford, quando il motore si fermò. Era già sera, non sapevamo che fare, mancavano pochi chilometri a New York, così uno di noi, non ricordo chi, disse di conoscere Donald Byrd che aveva una macchina. Una telefonata bastò e poco dopo Donald ci portava in città. Così nacque l'amicizia con lui e anche il lavoro. Poi un giorno Donald mi disse: vado da Miles, vieni con me. Mi sentii intimidito. Non conoscevo Miles; sapevo però che non aveva molta pazienza con i giovani jazzisti. Avrei preferito evitare l'incontro, ma Donald insistè e io mi trovai a casa di Davis. Fu gentile, chiacchierammo del più e del meno, lui molto di pugilato, noi un pò più di musica. Poi lui improvvisamente mi disse, fissandomi con quegli occhi che avrebbero spaventato chiunque: mi hai raccontato di essere un pianista, suona qualcosa allora. Mi sentii svenire, però mi misi al piano e suonai. Miles ascoltò senza dir niente. Poi ci salutammo. Pensavo che non lo avrei rivisto per un pò: non avevo le occasioni giuste; lui viveva già alla grande, io ero agli inizi. Invece un giorno sentii quella sua voce roca al telefono: vieni che incidiamo qualcosa insieme. Se non mi è venuto un colpo allora, poco ci è mancato".
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Herbie Hancock negli anni 60 Che cosa aveva interessato il divino Miles Davis in quella breve esibizione di Hancock? Probabilmente l'approccio netto, il senso di una sonorità pura che veniva al giovane pianista dagli studi classici (le dita sempre molto vicine ai tasti), la capacità di sintesi, il fraseggio articolato su poche note, e infine l'idea di riunire in un unico gergo un pò tutte le possibili forme del jazz. Ricordiamoci che negli stessi anni stavano emergendo pianisti del calibro di Chick Corea e Keith Jarret, anche loro con studi classici alle spalle e in grado, come Hancock, di mantenersi in bilico fra la musica colta -per la quale scrivevano anche corpose composizioni- e il jazz. La concorrenza, insomma, era spietata. Per affermarsi non bastava più avere un buon senso del ritmo e una grande fantasia; era necessario possedere una solida cultura musicale e saper sintetizzare stili diversi, assimilando il meglio di ciascuno di essi per riversare il tutto in una forma inedita di linguaggio. Tutte queste qualità dovettero certamente colpire la fantasia di Davis, ma fu forse soprattutto il tocco di Hancock a fargli pensare di aver trovato l'uomo giusto da mettere davanti al piano elettronico.
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Hancock si unì alla formazione di Davis nel 1963 e vi rimase fino al 1968, ma continuò a incidere con il gruppo anche nei due anni successivi. Ebbe dunque il tempo di partecipare alla ricerca sugli strumenti elettrici che il leader intraprese nella seconda metà del decennio, sia per recuperare un pò del successo che in realtà stava perdendo, sia per convincere i dirigenti della Columbia che la sua musica non era finita. Miles cominciò allora a confrontarsi con il rock e con le sonorità di quei generi che molti definivano semplicisticamente giovanili, dando vita a incisioni come The Sorcerer (1967), Nefertiti (1967), Filles de Kilimanjaro (1968) e soprattutto come In a Silent Way (1969), uno splendido tema di Joe Zawinul, giovane pianista austriaco dalla solida formazione classica che si era innamorato del jazz e si era trasferito negli Stati Uniti, finendo subito a suonare con i migliori jazzmen. La versione di In a Silent Way incisa da Miles, peraltro splendida, non piacque a Zawinul, che però stette disciplinatamente al gioco del leader e con lui anche Chick Corea. Tutti e tre i pianisti di Davis furono messi alla prova con il piano elettrico e tutti mostrarono di adatarsi perfettamente ai suoni un pò artificiali dello strumento. Chick Corea avrebbe continuato a usare indifferentemente tastiere elettriche e pianoforte per tutta la sua lunga e felice carriera; Joe Zawinul si sarebbe specializzato proprio nelle tastiere diventandone il maggiore esperto, mentre Hancock avrebbe mostrato di preferire lo strumento tradizionale, pur trovandosi a suo agio anche con quello elettrico e adoperandolo molto spesso negli anni sessanta. |
Dexter Gordon Nel 1966, quando ancora suonava nel gruppo di Davis, Hancock ebbe un'altra straordinaria occasione. E' ancora lui che racconta: "Ero a Londra per un concerto. Mi chiamarono al telefono in albergo. Una voce che non conoscevo mi disse: è a Londra anche Michelangelo Antonioni, vorrebbe conoscerti. Ti aspetta domani a colazione. Altro trauma: un grande regista come Antonioni vuole conoscere proprio me? Comunque andai e scoprii un uomo incantevole che sapeva molto di jazz. Parlammo di Miles Davis, di Gil Evans e delle incisioni del Jazz at the Philharmonic realizzate da Norman Granz. Poi Antonioni mi sparò la notizia che aveva in serbo: stava preparando un film e pensava che io fossi l'uomo giusto per scriverne la colonna sonora. Mi venne un accidente. Dissi subito di si ma quasi senza capire in quale impresa mi stavo imbarcando, e quando lui mi raccontò la trama del film me ne appassionai e cominciai a pensarci. Nacquero così le musiche di Blow up, che uscì sugli schermi nel 1967. |
Negli anni successivi il pianista continuò alla guida di un sestetto la ricerca sulle sonorità elettriche ed elettroniche cominciata nel gruppo di Davis. A un certo punto fu spinto a tentare una strada più commerciale e nel 1973 riunì un gruppo che chiamò Headhunters, ovvero cacciatori di teste. Con loro fece una musica fusion nella quale il jazz veniva contaminato con il funky, il rhithm,n,blues e il rock. Il disco che recava lo stesso nome del gruppo vendette oltre un milione di copie: un successo incredibile per un jazzista. Quando Hancock ne parla dice: "Si trattava di prendere una decisione: lavorare solo con dei jazzmen, pur sapendo suonare funky, o mettersi al fianco dei musicisti funky pur essendo un jazzista. Scelsi la seconda via che mi sembrava la migliore e i fatti mi hanno dato ragione. In molti, allora, mi accusarono di tradimento, ma io non ho mai trovato sbagliato fare musiche diverse. Se uno sa differenziarsi perchè non ci prova? Tanto più che con il jazz si guadagna poco, mentre le musiche commerciali sono assai più redditizie. Tutto sta nel fare bene la musica di consumo e bene anche l'altra. Non mi sento di accettare critiche in questo senso". |
Ron Carter Tre anni dopo, nel 1976, il festival di Newport dedicò al musicista un'intera giornata e lui rimise in piedi gli Headhunters. Inoltre riunì una seconda formazione alla quale diede il nome di VSOP, ovvero Very Special Onetime Performance. Con lui c'erano Freddie Hubbard alla tromba, Wayne Shorter al sassofono, Ron Carter al contrabbasso e Tony Williams alla batteria. Il nome del quintetto stabiliva che si sarebbe trattato di una realizzazione unica, ma il gruppo avrebbe suonato ancora molte volte incidendo una serie di dischi rimasti nella storia, gli ultimi dei quali con il giovane Wynton Marsalis al posto di Hubbard. |
Negli anni successivi Hancock tornò altre volte a lavorare per il cinema, scrivendo le colonne sonore per The Spook Who Sat by the Door (1973), Death Wish (Il giustiziere della notte, 1975) e A Soldier Story (1984). Poi Bertrand Tavernier lo invitò a Parigi per organizzare le musiche di Round Midnight, il film che aveva come protagonista Dexter Gordon e grazie al quale Hancock vinse un premio oscar nel 1987. "Fu un'esperienza entusiasmante" ha poi raccontato "Un pò perchè Dexter Gordon era un uomo straordinario, magnifico musicista col quale avevo lavorato da ragazzo, e inaspettatamente anche uno splendido attore; un pò perchè la vicenda, vagamente imperniata sulle vite di Bud Powell e di Lester Young, mi eccitava: Bud mi aveva sempre colpito per la forma di estasi con la quale suonava il pianoforte e anche Lester aveva sul suo sax tenore sonorità estatiche, quasi mistiche. Ora ero io che dovevo far rivivere, insieme alla loro storia tormentata, anche la loro musica. Straordinario, una fortuna. Del resto devo dire di essere un uomo fortunato: mi è sempre capitato qualcosa di incredibile nei momenti giusti". Negli anni ottanta fu comunque il jazz a dominare le sue performance: il suo stile pianistico si fece anche più sintetico. Poche note scandite con grande energia e sostenute da una bella mano sinistra che, a tratti, ricordava un pò quella dei pianisti stride, ovvero accordi molto caratterizzati e scanditi con forza, mentre la mano destra volava sulla tastiera inventando melodie. |
Herbie Hancock, Wallace Raney, Dave Holland, Wayne Shorter e Tony Williams sul palcoscenico dell'Orfeo di Milano, ottobre 1992 L'inizio degli anni novanta lo ha visto addirittura tornare nei club di New York alla guida di un trio, e allora è stato davvero grande jazz. Ma proprio mentre Hancock recuperava le sue più genuine matrici jazzistiche cominciava a maturare anche propositi commerciali, l'ultimo dei quali non ha avuto, almeno per quanto riguarda la musica, esiti particolarmente felici: entusiasta com'è di ogni cosa nuova, Hancock però non ha neppure avvertito il disagio dei critici: lui ha sempre nuove idee, le perfeziona ragionandoci sopra, se ne convince, poi parte a testa bassa per realizzarle. Di solito sono idee che funzionano: l'ultima no. Ma non c'è davvero da disperarsi: Herbie è un uomo dotato di una grande vitalità e di una forte serenità interiore. In più non ha problemi economici e questo significa che può permettersi di sbagliare. Lasciamolo fare e troverà presto un nuovo guizzo capace di entusiasmare i fan: quelli del jazz, ma anche tutti gli altri. |
Del resto Hancock sembra avere già un'altra idea: non ne parla, ne accenna soltanto, evidentemente non ne è ancora convinto, la sta semplicemente maturando. Potrebbe essere, dalle poche indiscrezioni che ha lasciato filtrare, un esperimento sulla musica popolare africana che prevede l'uso della Kora, la grande lira-liuto a diciannove corde dei popoli della costa occidentale, e della mbira, il cosiddetto pianino africano, una scatola di legno che funge da cassa armonica sulla quale sono inserite delle lamelle di metallo che si fanno vibrare con le dita. In più un coro di voci che partendo dal vecchio canto "chiamata-risposta" ripercorra tutta la storia del jazz, recuperando parte della sua tradizione vocale ma innestandola sul nuovo rock africano, quello che ormai riempie di giovani anche gli stadi europei. |
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