IL RITMO DELLA GRANDE MELA

 

L'orchestra swing di Tommy Dorsey

L'era dello swing volge al tramonto e comincia quella del iazz moderno. Nata nei locali di harlem, la nuova musica nera si chiama be bop; Charlie Parcher e Dizzy Gillespie sono i suoi protagonisti. 

 

ritratto di una metropoli

la città del jazz

la cinquantaduesima strada

Harlem, la Parigi nera

il Minton's Playhouse

i pionieri del be bop

il mitico duo Parker-Gillespie

una musica "Nera"

il giovane Miles

un nuovo modo di suonare

le jam session

 

 

ANNI QUARANTA

Aveva i capelli unti, le mani che puzzavano di pollo fritto, un grembiule che bianco non era mai stato. Doveva lavare piatti e bicchieri infilandoli prima in una rudimentale lavatrice automatica e poi sciaquando il tutto con l'acqua di un rubinetto. Lo chiamavano Bird o Yardbird (gallinaccio), ma il suo vero nome era Charles Christofer Parker, veniva da Kansas City, aveva diciannove anni e già sapeva di eesere un grande sassofonista. Ma New York, dove era giunto in cerca di qualche ingaggio, lo aveva colto con freddezza. Troppi musicisti giravano per le strade di Harlem, troppa gente si muoveva cercando in qualche modo di sbarcare il lunario. Per un nero, poi, affermarsi era ancora più difficile. Menu

 

 

RITRATTO DI UNA METROPOLI

 

L'entrata del club Downbeat

La grande paura della crisi del 1929, che aveva fatto i suoi danni maggiori proprio nei ceti più poveri, continuava a minacciare le attività produtive. New York aveva allora circa sette milioni di abitanti e di questi almeno due appartenenti a minoranze etniche: afroamericani, dominicani, portoricani, messicani, cinesi. La metropoli cresceva senza pensare a loro: il gran numero di abitanti aveva già spinto gli architetti a costruire in altezza. New York stava diventando la città dei grattacieli. Fra il 1920 e il 1935 era stato eretto l'Empire State Building; poi il Chrysler Building; nel 1931 erano cominciati i lavori per il Rockfeller Center e quelli per il palazzo della radio City Music Hall. All'inizio degli anni quaranta la Grande Mela continuava a essere il punto di arrivo di ogni ambizione, la città dove nascevano le mode e anche i protagonisti della cultura potevano diventare dei miti. Basti pensare a Ernest Hemingway che, già popolare per i suoi romanzi degli anni venti e trenta, proprio nel 1940 dava alle stampe Per chi suona la campana; o a William Faulkner, col quale iniziò a manifestarsi anche nella letteratura la questione razziale; o ancora a Richard Wright, autore nero che, sia pure con qualche fatica, nel 1938 era riuscito a pubblicare "I figli dello zio Tom" suscitando grande scalpore. Se Holliwood aveva conquistato le platee cinematografiche, Brodway era diventata la culla della drammaturgia, la lunga strada bianca dove ogni notte almeno ventimila persone assistevano agli spettacoli e ai musical. Menu

 

 

 LA CITTÁ DEL JAZZ

 

Art Tatum e Billie Holiday

In quanto al jazz, la scena newyoekese era dominata da pianisti come James P. Johnson, Fats Waller, Willie "The Lions" Smith. Piccoli gruppi di jazzisti si alternavano alle grandi orchestre di Duke Ellington, di Cab Calloway, di Jmmie Luncerford e di Chic Webb e a quelle, tutte formate da bianchi, di Benny Goodman, di Tommy Dorsey e di Glenn Miller, orchestre swing che avevano rubato a quelle nere molte idee e le sfruttavano con successo per dare al jazz una patina di borghese onorabilità. In questo seguivano le tracce di Paul Whiteman, direttore di una grande orchestra da ballo che nel 1924 aveva spinto George Gershwin a scrivere la "Rapsodia in blu", una sorta di caleidoscopio musicale nel affioravano certi segni jazzistici e che, con il grande successo ottenuto, aveva dato al jazz sinfonico, altra invenzione commerciale per far entrare la musica nelle radio che cominciavano a diffondersi in tutto il paese. Non ci sono cifre esatte, ma alla fine degli anni trenta New York ospitava almeno duemila jazzisti: la lotta per emergere, insomma, era veramente dura e la città nulla faceva per agevolare quei giovani che finivano quasi sempre drogati e alcolisti e che vivevano in miseria pur di continuare a suonare. Menu

 

 

 

 LA CINQUANTADUESIMA STRADA

 

Veduta notturna della Cinquantaduesima strada

Manhattan era divisa in tre zone: la Downton, in pratica il Greenwich Village, luogo di pittori, intellettuali, ballerini, originali; la Midtown, addensata tra Brodway e la Avenue of the Americas, e infine la Uptown, ovvero Harlem. La vita musicale cittadina aveva uno dei suoi centri nei dintorni di Brodway, sulla Cinquantaduesima Strada: un luogo itinerario di palazzi severi costruiti con quel mattone scuro usato un pò da tutti gli architetti di New York all'inizio del secolo. In quella via, in stanzoni al pianterreno o addirittura in scantinati, si erano aperti numerosi club. Di giorno la strada era praticamente deserta, ma di notte si accendeva di mille luci. Scrive Ross Russell:"Arrivando in taxi sulla strada, in una calda notte di settembre, Charlie Parker con una sola occhiata vide tutti i nomi delle insegne. Era come se avesse davanti a sè la storia del jazz: al Jimmy Ryan's c'era il leggendario Sidney Bechet, l'ultimo dei grandi clarinettisti creoli, e c'era con lui un complesso New Orleans con Zutty Singleton, un batterista che aveva suonato con il mitico Buddy Bolden. All'Onyx si invitava il pubblico ad ascoltare il grande sax tenore di Coleman Hawkins; di fronte, al Famous Door, c'era Art Tatum che suonava in trio. L'attrazione del Downbeat era Mildred Bailey, accompagnata dal marito, il vibrafonista Red Norvo. Fats Waller era allo Spotlite mentre Leo Watson era al Samoa". c'erano anche altri club sulla cinquantaduesima, ma erano ancora più piccoli e poveri, come il White Rose, dove andavano un pò tutti a bere perchè le consumazioni erano meno care. Charlie Parker riuscì a trovare lavoro al Theree Deuces, l'ultimo dei club, quello più vicino alla Sesta. Lì dentro suonava di solito un giovane pianista di nome Erroll Garner, anche lui autodidatta, anche lui un innovatore, che con Parker avrebbe inciso dischi rimasti nella storia come il celebre "Cool Blues". Menu

 

 

 HARLEM, LA PARIGI NERA

 

Thelonious Monk, Howard McGhee, Roy Eldridge e Teddy Hill. Davanti al Minton's

Harlem rappresenta per la storia del jazz un punto di riferimento fondamentale. Con le sue grandi sale da ballo e con la miriade di piccoli e spesso effimeri jazz club che si affacciavano sulle sue strade, a partire dalla metà degli anni venti il quartiere fu infatti uno dei principali centri di diffusione della musica afroamericana. Menu

 

 

UN PASSATO BORGHESE

Simbolo stesso della componente nera e proletaria della popolazione di New York, Harlem ha però alle sue spalle una storia solidamente borghese. Agli inizi del secolo era infatti un quartiere residenziale abitato prevalentemente da bianchi. Era stato adirittura un centro culturale, un luogo di incontro per intellettuali, scrittori, attori, oltre che musicisti, e per questo si era meritato l'appellativo di "Parigi Nera". Poi cominciò il degrado e nessuno riuscì ad arrestarlo. Harlem fu invasa dalle famiglie di colore venute dal sud in cerca di lavoro e la sua popolazione si moltiplicò a tal punto che gli edifici lasciati liberi dai bianchi furono suddivisi all'infinito. Le case furono lasciate andare: nessuna riparazione, tubature rotte, scale che minacciavano di cadere, grondaie che non tenevano l'acqua. Tutto restava immutato e Harlem andava a rotoli. Il quartiere diventò anche un grosso centro per lo smercio delle droghe: mezz, soprattutto, le sigarette di marijuana onfezionate da Milton Mezz Mezzrow, un clarinettista bianco che voleva farsi passare per nero e che suonava spesso con Sidney Bechet, ma anche oppio, eroina (una capsula, mezzo dollaro) e polverina bianca, quella che l'avvocato Carmichael, pianista, cantante e compositore, aveva chiamato "star dust" in una famosissima canzone. Menu

 

IL GHETTO SI RIBELLA

In queste condizioni, le rivolte scoppiavano spesso. Una delle maggiori si ebbe nel 1935 e per un pò i ragazzini andarono in giro in frac e cilindro, strappati dalle vetrine infrante, e senza volerlo diedero il via a una moda che era già nell'aria grazie a un cantante e direttore d'orchestra, Cab Calloway, che vestiva appunto straordinari frac bianchi coi calzoni troppo larghi e le giacche troppo lunghe. Così si diffusero sulla centoventicinquesima, il cuore di Harlem, lunghe giacche rosa, rosse, verde pisello, grandi cappelli neri, scarpe di vernice, calzoni di taglie troppo abbondanti per chi li portava. Era un modo per combattere con fantasia la miseria e, soprattutto, per deridere le convenzioni e l'abbigliamento dei bianchi. Menu

 

 

 IL MINTON'S PLAYHOUSE

Poco più a nord, ad Harlem, l'appuntamento d'obbligo era diventato il Minton's Playhouse, sulla centodiciottesima, una delle strade più povere del quartiere. Il locale non era altro che un loft dell'Hotel Cecil, un albergo davvero poco invitante. Non era l'unico locale, ovviamente. C'erano il mitico Cotton Club, il Monroe's, il Victoria, lo Yeah Man, lo Small Paradise, diventato famoso per aver avuto come cameriere nientemeno che Malcolm X, profeta della liberazione nera. Il Minton's era di proprietà di Henry Minton, non certo un grande gestore, ma ex sassofonista e primo delegato nero dell'Unione musicisti di New York. In più, Minton aveva avuto l'accortezza di far dirigere il locale a Teddy Hill, ex bandleader con il quale avevano suonato un pò tutti, che cercavano di dare al jazz un'impronta nuova. Dunque Hill aveva pensato di mettere nel club soltanto una sezione ritmica, formata dal pianista Thelonious Monk, dal basista Nick Fenton e soprattutto dal batterista Kenny Clarke, che era il generatore di ogni situazione musicale. per dare vita alle jam session aveva scelto il lunedì, serata di libertà per quanti lavoravano nei teatri e nei club, organizzando "La notte delle celebrità". Il locale era grigio, addirittura povero: una stanza spogliatoio, un bar, pochi tavolini e una pedana che poteva contenere al massimo sei o sette musicisti. La cucina era ottima: con tre dollari si potevano gustare le specialità creole, mentre i cocktail costavano dai 25 ai 30 cents e lo stesso il baby di whisky. Menu

 

 

I PIONIERI DEL BE BOP

Hill aveva anche capito che i giovani musicisti erano stufi di quel jazz commerciale che andava per la maggiore. Sapevano tutti che lo sing era stato una cosa splendida sotto le mani di Count Basie o di Jimmie Lunceford, ma che quando le orchestre bianche se n'erano impadronite era diventato una musica bolsa, adatta solo a far ballare gli smidollati. Così ognuno di loro cercava di uscirne, di inventare linguaggi nuovi. Kenny Clarke era uno di questi. Raccontava il batterista: "Mi ero stancato di suonare alla Jo Jones [il batterista di Count Basie]. Era ora di cambiare, così avevo spostato il ritmo base della percussione dal tamburo basso al piatto alto, sul quale potevo ottenere variazioni di tono graduando il colpo della bacchetta. In più ero libero di picchiare tamburo e timpani per marcare gli accenti". Anche Thelonious Monk, che proprio Clarke aveva suggerito a Hill, stava cercando nuove strade. Monk era un autodidatta ma la sua tecnica, almeno così afferma il batterista Max Roach, era assai vicina a quella di Art Tatum. All'epoca aveva già scritto temi che sarebbero entrati nella storia, come "Round Midnight, Blue Monk, Epistrophy" ma che ancora erano quasi sconosciuti. Con loro suonavano poi Charlie Christian, giovane chitarrista che cominciava a provare nuove sonorità con i primi strumenti elettrici; Joe Gay, trombettista npon particolarmente noto ma dotato di un certo talento, e il sassofonista Don Byas, dalla voce colma di tenere sonorità. Menu

 

 

IL MITICO DUO PARKER-GILLESPIE

 

Parker con il trombettista Red Rodney al Downbeat durante un concerto di Dzzy Gillespie

Nel frattempo Parker aveva cominciato a frequentare il Monroe's Uptown House, un locale di Harlem. Cominciò così a girare la voce della presenza di un giovane sassofonista che suonava a una velocità pazzesca. Monk e Clarke andarono ad ascoltarlo. "Suonava roba che non avevamo mai sentito" ricordava il batterista "faceva col sax quello che io pensavo di aver inventato sulla batteria. Era più veloce di Lester Young e con accordi nuovi. Correva esattamente nella nostra direzione, ma era molto più avanti". Quella stessa sera Monk e Clarke lo avevano invitato a trasferirsi al Minton's, e sapendo che Hill non avrebba pagato un musicista in più, avevano deciso di fare una colletta fra loro. Parker aveva accettato subito. Era affamato, i suoi vestiti erano a pezzi, dormiva dove gli capitava, magari anche nell'auto di qualche sconosciuto. In più era sempre pieno di alcol e aveva anche ripreso a drogarsi. Insomma era uno straccio d'uomo, ma non quando suonava. Le droghe, diceva agli amici, gli alleggerivano lo stato d'ansia in cui viveva ma non gli toglievano, come accadeva ai più, gli appetiti: era un mangiatore formidabile, beveva come una spugna, e in quanto alle donne era sempre pronto ad aderire alle profferte delle sue ammiratrici che diventavano sempre più numerose. Intanto al Minton's era arrivato un'altro giovane che stava avendo un grosso successo: Dizzy Gillespie, trombettista di straordinaria abilità, un uomo sempre allegro, inventore di scherzi clamorosi, ma sul lavoro di una serietà esemplare. I due avevano subito capito di procedere sulla stessa strada: entrambi erano degli innovatori, ed entrambi pretendevano di riabilitare la dignità nera. Menu

 

 

 UNA MUSICA "NERA"

 

La band di Gillespie nel 1945

Insieme, Dizzy Gillespie e Charlie Parker elaborarono un nuovo linguaggio, fatto di tempi vertiginosi, di improvvisi mutamenti di ritmo e di tonalità, di sovracuti, andando così a turbare quel tranquillo ordine che lo swing aveva dato alle cose. Per la musica che quei due forsennati cominciarono a suonare qualcuno coniò un nome:"be bop" o "re bop". Molti dicevano che fosse stato Gillespie l'inventore di quel buffo nomignolo, ma lui lo negò sempre: "No, è solo un suono che girava fra noi grazie ai cantanti scat. Io me lo sono trovato addosso senza saperne nulla". Comunque quelle due sillabe diventarono in breve molto popolari e assunsero anche significati sociali e razziali. Erano la bandiera di una nuova rivolta, quella dei jazzisti che cercavano di scalare la musica bianca e di riprendere il sopravvento. Era sempre accaduto nella ancor breve storia del jazz: a New Orleans erano stati soprattutto i neri a fare il jazz ma poi la gloria se l'erano presa i bianchi. La stessa cosa era successa anche allo swing: l'orchestra di Count Basie e altre di jazzisti meno noti avrebbero dovuto essere indicate come le madri dello swing. Invece successo e soldi li aveva avuti Benny Goodman. Ora lo swing aveva fatto il suo tempo, proprio perchè le orchestre bianche ne avevano addolcito i tratti originari, trasformandolo in musica da ballo facilmente commestibile, a uso della buona borghesia bianca delle grandi città, quella stessa che non avrebbe mai consumato un genere che si chiamava jazz e che ricordava il mondo nero. Dunque la lotta, a suon di trombe e sassofoni, voleva essere una manifestazione di orgoglio e di vitalità. Così Gillespie e Parker avevano inventato un linguaggio che pochi musicisti bianchi avrebbero potuto copiare, sia per l'originalità del suo discorso, sia per la difficoltà tecnica che prevedeva; e così accadeva che suonassero magari voltando le spalle al pubblico, magari coi cappotti addosso, per far capire alla gente che non cercavano musica ma arte e che erano indifferenti agli applausi e alla comprensione. In questo affermavano anche che il loro linguaggio aveva significati diversi da quelli del vecchio jazz: non era più solo la musica da intrattenimento o musica da ballo, ma si avvicinava alla grande musica e voleva condividerne istanze intellettuali e glorie. Non a caso, nei primi tempi più di un critico scrisse che non si trattava più del jazz. E pensare che i due musicisti non facevano che suonare, sia pure a modo loro, blues.  Menu

 

 

 IL GIOVANE MILES

 

Miles Davis, il trombettista fotografato nel celebre Club Birdland di New York il cui nome era un omaggio a Charlie "Bird" Parker

Nel 1944 arrivò a New York un altro giovane musicista. Si chiamava Miles Davis, veniva da St Louis, Missouri, era figlio di un dentista e aveva solo diciott'anni. Aveva avuto un'educazione borghese ma era cresciuto con una grande consapevolezza razziale. A tredici anni aveva cominciato a suonare la tromba, dono di compleanno dei suoi genitori. Si era appena diplomato alla Lincoln High School quando aveva avuto occasione di ascoltare l'orchestra di Billy Eckstine nela quale militavano anche Parker e Gillespie, e ne era rimasto fulminato. Così ricordava quel primo incontro nella sua autobiografia: "Che diavolo era quella roba? Gente, quella era merda grandiosa. Lasciatemelo dire: formidabile!". L'incontro si era concluso con una fortunata esibizione insieme: all'orchestra era mancato un trombettista e così mister B -così era chiamato Billy Eckstine- aveva ingaggiato su due piedi quel ragazzo. La banda cambiò la vita al giovane Davis, che decise di raggiungere i due a New York. "Avevo ancora il latte sulle labbra per cose come donne  e droghe, ma avevo fiducia nelle mie capacità di musicista. In ogni modo" continuava Miles "la città era perfetta per farmi aprire gli occhi. Il ritmo di New York era il più incasinato che avessi mai visto". Menu

 

 

 UN NUOVO MODO DI SUONARE

Parker e Gillespie avevano colpito Miles Davis con il loro particolare modo di suonare. Parker traeva dal suo sax contralto una voce che poteva essere a volte piena e possente e a volte acidula, addirittura stridula, ma sempre suggestiva. La sua esibizione era vertiginosamente veloce. E vertiginoso, "dizzy", era il soprannome di Gillespie. Velocità, humor, sarcasmo erano gli ingredienti dei due musicisti i quali, tuttavia, sapevano anche lasciarsi andare a meraviglia ballate sentimentali. Miles non poteva misurarsi con loro sul piano tecnico. I suoi attacchi erano a volte incerti, il suo suono non aveva la luminosità di quello di Gillespie, nè la sua velocità di esecuzione era quella che caratterizzava i due amici. Così aveva valorizzato i suoi difetti: l'esile voce del suo strumento era diventata un pungente contrappunto alla fluidità di Parker, i suoi interventi come controvoce alle pirotecniche trovate di Gillespie diventarono subito popolari. Insomma MIles si stava costruendo una personalità senza lasciarsi influenzare. Menu

 

 

 LE JAM SESSION

Negli anni quaranta cominciò la crisi delle grandi orchestre: i costi erano troppo alti per sopravvivere e del resto i giovani jazzisti preferivano i piccoli gruppi, dove potevano improvvisare in tuta libertà confrontando le tecniche, gli stili e le idee. Così, per esempio al Minton's, era sempre presente in sala una sezione ritmica, ovvero un pianista, un bassista e un batterista, ai quali si univano di volta in volta altri musicisti che improvvisavano con loro in lunghe jam session. Nella formazione classica del primo be bop, alla sezione ritmica si aggiungevano di solito un sassofonista e un trombettista. Poteva accadere che qualche jazzista bianco si presentasse per confrontarsi con loro: i boppers non gli negavano il permesso di suonare, ma poi lo costringevano a fuggire  eseguendo la loro musica a una velocità incredibile e reinventando i temi degli standard, quelle canzoni sulle quali i jazzmen erano solito confrontarsi. Pagina iniziale

               

 

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