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Negli anni cinquanta la metropoli assume un ruolo decisivo nella crescita di un genere musicale praticato prevalentemente da jazzisti bianchi: il Californian Sound. Tra i protagonisti del jazz californiano emergono Gerry Mulligan e Chet Baker, che con il loro quartetto danno vita a una realtà musicale di grande interesse. |
IL JAZZ NELLA CITTA' DELLE STELLE
Los Angeles, paradiso degli automobilisti, tutto sommato non è una città. E' piuttosto un gigantesco agglomerato urbano che occupa un'area grande quanto la Toscana e la Lombardia, completamente ricoperta da milioni di edifici: casette in stile ispano-coloniale schiacciate fra i grattacieli, piccole chiese dimenticate in quartieri realizzati senza progetto urbanistico. Una enorme metropoli che si estende per decine di chilometri, attraversata da grandi viali con palme, abbacinata dalla violenta luce del sole, e che può essere percorsa praticamente solo in macchina: aperta da pochi anni, la metropolitana è infatti insufficiente e le distanze sono tali da sconsigliare l'uso dei bus. Menu |
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Ancora oggi, Los Angeles conserva in parte alcuni caratteri latini che le derivano dalle sue origini ispaniche. La città fu infatti fondata nel 1781 dal governatore spagnolo Felipe de Neve, che la battezzò col nome di Nuestra Señora la Reina de Los Angeles. Capitale, dal 1822, della provincia messicana dell'Alta California, Los Angeles fu ceduta agli Stati Uniti nel 1848 e due anni dopo diventò americana. La metropoli attuale, cresciuta intorno all'originario pueblo spagnolo, è divisa in districts, ossia in città satelliti (come Hollywood o Beverly Hills) legate fra loro senza soluzione di continuità. Menu |
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Negli anni quaranta Los Angeles era parsa un pò emarginata dal punto di vista musicale. Vi esistevano comunque alcuni nuovi club, tra i quali il Billy Berg's, il Down Beat, il Tiffany, lo Zardi's e l'Hangover, che cercavano in qualche modo di operare e nei quali si esibivano spesso gruppi di jazzisti. Al Billy Berg's, in particolare, verso la fine del 1945 si era avuta una serata indimenticabile con il quintetto di Charlie Parker e Dizzy Gillespie. Al loro arrivo alla Union Station dopo un massacrante viaggio in treno da New York, Parker e Gillespie erano stati accolti dall'ex sassofonista Dean Benedetti che aveva dato subito loro un'inquietante notizia: in città era diventato molto difficile rifornirsi di droga. C'erano state alcune retate di polizia; così la roba era scarsa e costava tre volte più che a New York. Il resoconto di Benedetti aveva messo in stato di grande tensione Parker, a quell'epoca già schiavo dell'eroina. Comunque, ricorrendo alle raffinate bugie del tossico, il grande sassofonista era riuscito a ottenere da un medico un pò di morfina. Così quella prima esibizione al Billy Berg's era andata a gonfie vele e nelle sere successive Parker e gli altri, all'uscita dal club, avevano anche partecipato alle jam che si tenevano nei locali della Central Avenue, come l'Alabam, il Lovejoy's, il Bomber. Fu proprio al rientro da una di quelle serate che Parker minacciò di bruciare l'alberghetto in cui abitava, il Civic Hotel, dopo essere sceso nella Hall completamente nudo. Finì ovviamente al pronto soccorso e poco dopo fu internato al Camarillo, un ospedale psichiatrico a una settantina di chilometri da Los Angeles. Menu |
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Le esibizioni di Parker e Gillespie non rappresentavano comunque gli unici eventi musicali della città delle stelle, dove anzi proprio in quegli anni cominciavano a circolare molte nuove idee. Nel 1948, in uno studio di Hollywood, l'orchestra di Woody Herman aveva inciso Four Brothers: i "quattro fratelli" erano i sassofonisti Stan Gets, Zoot Sims, Herbie Steward e Serge Chaloff. Il tema rimase famoso e alcuni degli uomini di Herman diventarono i punti di riferimento del jazz locale: oltre ai quattro già citati, c'erano fra loro un altro sassofonista, Bud Shank, i trombettisti Shorty Rogers eMaynard Ferguson, i trombonisti Johnny Mandel e Bob Brookmeyer, il bassista Red Mitchell e l'arrangiatore e compositore di chiare origini classiche Boyd Raeburn, che scriveva temi dai titoli significativi come Boyd Meets Stravinskij. Questi musicisti si muovevano in un clima profondamente diverso da quello di New York: in California la rabbia e la contestazione dei jazzisti newyorkesi non avevano ragione d'essere. Innanzitutto per via del clima: nonostante il traffico che ne percorre i grandi viali, Los Angeles è una città sonnolenta; il mare, le spiagge, le palme, il caldo spingono a una vita più rilassata. Inoltre i jazzisti erano quasi tutti bianchi e quindi il problema razziale non li toccava, anche perchè vivevano in un mondo ricco: gli abitanti di Long Beach, di Santa Monica, di Culver City, non volevano essere infastiditi con musiche aggressive ma chiedevano atmosfere soft ed esecuzioni gradevoli. Per questa musica, che in realtà aveva in se molti elementi per essere giudicata commerciale, era stato coniato anche un termine accattivant ma che poteva fuorviare: fu infatti definita progressive, anche se continuava la tradizione delle grandi orchestre swing degli anni trenta e quaranta. Uno dei portavoce della musica progressive era Stanley Newcomb Kenton, originario di Wichita, nel Kansas, ma californiano di adozione. Una volta aveva addirittura detto: "I trentacinque o quarant'anni di jazz sono finiti. Su di essi possiamo chiudere tranquillamente la porta. In qualsiasi direzione andremo, non torneremo certamente al jazz frenetico". E qualche anno più tardi aveva chiamato la sua orchestra "A New Era in Modern American Music". Menu |
Questa era l'atmosfera in cui si muovevano coloro che verranno poi definiti: "californiani": fra essi c'era anche un giovane trombettista, Chet Baker. Nato a Yale, in Oklaoma, nel 1929, Baker si era poi trasferito con la famiglia in California. Il padre, suonatore dilettante di banjo, gli regalò un trombone con il quale cominciò a suonare nella banda della scuola. L'adolescente Chet era il perfetto eroe della beat generation, ribelle per natura, acuto osservatore delle cose, sempre pronto a volgere a suo favore inventando scuse di ogni genere. Proprio per scrollarsi di dosso i vincoli della famiglia e della scuola, nel 1946 si arruolò nell'esercito. Fu destinato a Berlino e qui, attraverso la radio e i dischi, conobbe tutti i grandi del jazz. Bel ragazzo dall'aria sfottente, esile ma forte, Chet piaceva molto alle donne ma si innamorò della ragazza sbagliata, l'unica che non voleva. Così tornò sotto le armi per dimenticare. Questa volta però rimase a San Francisco e qui ebbe l'occasione di suonare con molti jazzisti. Ma non riusciva ad adattarsi alla disciplina militare e così i suoi superiori lo trasferirono in Arizona, in un battaglione di sorvegliati speciali da cui fuggì quasi subito. Arrestato dalla Military Police, venne rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Nel 1952, di nuovo in libertà, tornò a Los Angeles e qui ebbe la fortuna di suonare addirittura con Parker proprio al Billy Berg's, il locale in cui era cominciata la disfatta psichica del genio del bebop. Menu |
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Durante una di queste serate Chet Baker fu ascoltato da Richard Bock, un agente che aveva sotto contratto anche il sassofonista Gerry Mulligan. Bock pensò che i due, insieme, avrebbero potuto avere successo e così invitò Mulligan, all'epoca reduce dalla bella avventura del cool jazz, a lasciare New York per raggiungerlo a Los Angeles. Il 9 luglio 1952 Baker e Mulligan incisero insieme per la prima volta e una settimana dopo Chet registrò anche con Parker. Ma il quartetto era già nell'aria: Gerry, Chet, più Bob Whitlock o Carson Smith al basso e Chico Hamilton alla batteria. Il quartetto apparve subito come la più bella fra le realtà californiane: musica asciutta, dinamica, legata alla tradizione dello swing se non addirittura a una sorta di neodixieland, eppure spinta in avanti da una gran voglia di innovare; poteva piacere a tutti proprio per la carica dinamica che conteneva. Inoltre la mancanza del pianoforte rendeva più libera l'improvvisazione. Ma i due non riuscivano a legare. Menu
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Con i suoi capelli rossi tagliati a spazzola, anche Gerry Mulligan era un bel ragazzo: alto, piuttosto elegante, sempre molto formale, come poteva vivere con quello sciagurato di Chet Baker, vestito da beat, che conosceva poco la doccia, che beveva oltre misura e che si faceva di ogni cosa, dalla marijuana all'eroina, aumentando di continuo le dosi e che per procurarsi i soldi necessari ad acquistare la droga mentiva spudoratamente con tutti, amici e no? Anche Gerry cominciò a drogarsi. Quale jazzista, in quei giorni, non lo faceva? Gerry, comunque, grazie al suo temperamento prudente riusciva a usare gli stupefacenti con parsimonia. Mulligan veniva da New York, dove nel 1948 aveva fatto il suo debutto sulla scena del jazz suonando insieme a Miles Davis e Gil Evans al Royal Roost e incidendo al loro fianco le pietre miliari del nuovo stile cool. Il ruolo del sassofonista tra quei giganti del jazz non era certamente stato di secondo piano; inoltre, Mulligan aveva al suo attivo anche un buon curriculum di solista e di compositore; due suoi temi, Jeru e Venus de Milo, stavano già facendo il giro del mondo. E comunque, quell'esistenza da bohème aveva fascino anche per lui: il correre all'impazzata sulle grandi strade di Los Angeles nelle automobili scoperte, il sentirsi riconosciuti dalla gente, invitati dalle ragazze, ossequiati nei locali alla moda, sempre soldi in tasca. La vita sembrava troppo facile. Anche Gerry si lasciò andare; ma poi, dopo una notte insonne, capì in che precipizio stava cadendo. Così, grazie alla sua volontà di ferro, riuscì a liberarsi dalla dipendenza della droga. E la presenza di Chet gli riusciva sempre più pesante. Comunque avevano inciso molte belle cose insieme, temi che sono rimasti nella storia del jazz, da My Funny Valentine, dove Chet sfoggiava tutto il suo languido lirismo, a Line ForLyons, dove invece era Gerry a mettere in luce tutte le sfumature dinamiche del suo baritono. Una notte. tornando da un concerto, li fermò la polizia. Chet, come al solito, era sotto l'effetto della droga: gli intimarono di scendere e lo perquisirono. Il trombettista non aveva addosso nulla di compromettente, ma al momento dell'arresto per abuso di stupefacenti disse indicando Gerry: "E' lui che mi da la roba". Null'altro, ma bastò e in galera finì anche Mulligan. Durante quelle notti in guardina in attesa di un processo per droga Mulligan cominciò a nutrire un autentico odio per Baker. Il trombettista e il sassofonista si separarono, anche se i loro dischi stavano avendo un grande successo: ognuno per la sua strada. Gerry, sempre più signore, sempre più gentiluomo, maturava nuove scelte, organizzava grandi orchestre, cominciava anche a pensare a composizioni di più largo respiro; Chet, sempre più schiavo della droga, rotolava in quel baratro che lui stesso si ers scavato: bello, affascinante, il volto emaciato, gli occhi febbricitanti, sapeva incantare chiunque e la sua tromba con quella voce lieve faceva il resto. Nel 1955 arrivò a Parigi: la sera del debutto il suo pianista, Richard Twardzik, era morto per overdose in camerino. Chet, che gli era al fianco, anche lui perduto nel mondo dei sogni, quasi non si accorse di quello che stava accadendo. Sia pure in condizioni precarie affrontò ugualmente un breve tour. Arrivò anche a Milano; poi, tornato negli Stati Uniti, dovette farsi ricoverare per disintossicarsi. Menu |
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Uscito dalla clinica, Chet Baker incise un pò con tutti, poi tornò in Europa dove pensava di poter vivere meglio, alla larga dalle squadre antidroga americane. Si fermò a Milano con la terza moglie Halema, dalla quale aveva avuto un figlio. A Milano visse di ripieghi, a volte aiutato dagli appassionati di jazz, a volte evitato proprio per le sue continue menzogne. Si inventava di tutto, le cose più astruse, pur di trovare i soldi per farsi. Così cominciò a girare l'Europa, non soltanto per suonare ma anche per trovare paesi più tolleranti. Tornato per un breve periodo negli Stati Uniti, ebbe grossi guai con la polizia. In Italia, poi, lo sorpresero in una cabina telefonica di Viareggio ancora con un ago nella vena. Fu rinchiuso nel carcere di Lucca, dove rimase per sedici mesi. Di nuovo negli Stati Uniti, vi scontò un'altro periodo di reclusione e quando uscì dal carcere fu picchiato da alcuni spacciatori: gli avevano rotto i denti, non avrebbe più potuto suonare. Il poeta My Funny Valentine aveva dunque finito di cantare? Lui lo pensava e per sopravvivere si mise a lavorare in un distributore di benzina, dove fu scoperto da Gillespie. Dizzy lo trascinò da un dentista, lo fece curare, gli regalò una tromba nuova e poi gli disse: "Ragazzo, adeso tocca a te farcela di nuovo. Hai dentro ancora tanta musica da dare al mondo, ma hai anche il diavolo in corpo e non so chi vincerà, se la musica o il diavolo". Vinse ancora una volta il diavolo e Chet si trascinò di paese in paese, sempre più magro, sempre più silenzioso: la sua musica era diventata un soffio, la sua voce un palpito. La gente accorreva ancora ad ascoltarlo ma lo spettacolo non aiutava certo la poesia. Così fino alla fine, fino a quel tragico volo dalla finestra di un albergo di Amsterdam. Gettato da gente a cui voleva dei soldi? Caduto per un incidente, magari sotto l'effetto di qualche droga, oppure precipitato volontariamente per mettere fine alle sue sofferenze? Nessuno ha saputo rispondere a questi interrogativi. In un ultimo, drammatico incontro a Milano, con un filo di voce, disse a chi scrive: "La musica è una stupenda compagna di viaggio ma non vuole più stare con me. So di averla tradita". Menu |
Mulligan continuò da solo la sua strada. E' nota a tutti la sua passione per Judy Holliday, la splendida attrice del film Nata ieri con la quale scrisse anche alcune belle canzoni. Dopo la sua morte ebbe un lungo periodo di abbandono. Era stanco, sfiduciato. Poi la vita riprese il sopravvento. Mulligan continuò a scrivere bella musica, fece concerti ma con parsimonia, cominciò anche a scrivere composizioni per orchestra sinfonica ed ebbe i lpiacere di vederle entrare nel repertorio di grandi formazioni, americane e no. Il suo desiderio era quello di poter ascoltare la sua musica alla scala di Milano. Ma è rimasto un sogno. L'ultimo concerto prima di morire lo tenne al Teatro Nazionale di Milano, con Ornella Vanoni e con alcuni monaci buddisti. Già, perchè si era anche convertito al buddismo e per le congregazioni religiose del Tibet, scacciate dal regime cinese, suonava spesso per procacciare fondi. In quell'occasione aveva solo un filo di voce. Ma l'emozione era stata tanta, tantissima. Menu |
Gli anni cinquanta, in un certo senso, raddrizzarono il mondo: la guerra finita mise in luce nuovi valori, diede una nuova vitalità all'industria, fece riaccendere le luci dei palcoscenici. La California, in particolare, fu interessata da un boom economico senza precedenti che ebbe fra le sue conseguenze anche l'apertura di molti locali notturni. In tutte le città della costa occidentale degli Stati Uniti quel periodo vide la riscoperta del Dixieland e dello stile New Orleans. Il revival dello stile New Orleans ebbe in Lu Watters il suo profeta, in Bob Scobey e in Turk Murphy i suoi angeli custodi e nella baia di San Francisco la sua sede naturale. Pionieri come il trombonista Kid Ory e il trombettista Bunk Johnson furono ripescati da musicisti bianchi emarginati dalla Swing Era e con loro vennero riportati in auge il trombonista Jack Teagarden, già rientrato anche nelle nuove formazioni di Armstrong, il clarinettista Eddie Miller, il trombettista Red Nichols e il chitarrista Eddie Condon, che aprì addirittura un suo locale a New York, il Nick's, dove si suonava il jazz di Chicago. Il revival si era esteso anche nell'Europa, ma con altri significati. Mentre in California si cercava di attuare una sorta di restaurazione dei vecchi tempi contro le nuove regole del jazz, nel Vecchio Continente si andava ricostruendo la storia, rifacendo la musica sull'ascolto dei vecchi dischi. In Europa il revival ebbe insomma il valore del ricupero filologico e non fu, come negli Stati Uniti, un tentativo commerciale volto a ridare fiato a un genere che aveva ormai fatto il suo tempo. Pagina iniziale |
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