TUTTE LE DONNE DEL JAZZ

Negli anni quaranta la Grande Mela è anche il centro del canto jazzistico, il luogo di incontro di alcune delle più splendide interpreti nell'intera storia di questo genere musicale.

 

 

 

Sarah Vaughan

una serata al Roseland Ballroom

musica al Grand Hotel

Ella e Billie: le regine

altre voci nere

Helen Forrest: una stella bianca

cantando con grinta: Anita O'Day

le voci di Ellington

al Metropolitan Cafè

Dinah Washington

la voce solista di Carmen McRae

i tempi ipnotici di Helen Merril

le altre

 

 

 

 SARAH VAUGHAN

 

Sarah Vaughan con la Count Basie Orchestra

Sarah era furiosa, come solo lei, fra le grandi cantanti di jazz, sapeva esserlo. Si era sfilata l'abito di scena quasi strappandoselo di dosso, aveva indossato in fretta una vestaglia rossa e un paio di pantofole sgangherate, poi si era buttata su una poltrona del suo camerino. Sarah aveva appena finito di cantare all'aperto sul lago di Lugano dove, dopo qualche minuto di musica, aveva cominciato a tirare un vento freddo che scendeva dalla montagna, facendo fischiare il microfono e rendendole difficile l'esibizione. Le era addirittura capitato di steccare un paio di volte, lei che di stecche nella vita ne aveva prese ben poche. Perciò sedeva nervosa, la bottiglia di Whisky già mezza vuota, e non aveva voglia di parlare: prima doveva sfogarsi con quella sequela di parolacce che erano spesso il corollario dei suoi concerti.   Menu

 

 

 UNA SERATA AL ROSELAND BALLROOM

A quel punto Sarah aveva cominciato a raccontare. "Non credete" aveva detto "che non mi sia già capitato. Cielo, non negli ultimi anni, ormai sono una diva. Ti voglio parlare di una volta al Roseland Ballroom di New York. Conosci il posto? Duemila persone ad ascoltarti ballando, fino alle quattro, alle cinque del mattino, e tre gruppi di musicisti con tre cantanti. Era il 1941: ricordo la data perchè il "New York Tribune" festeggiava i suoi cent'anni di vita e aveva organizzato alcune serate per i lettori: una, appunto, al Roseland. In lotta -perché proprio di lotta si trattava- io con un trio guidato dal pianista Hank Jones; Marion Hutton con l'orchestra di Glenn Miller -ed erano loro i protagonisti della serata, perchè in quegli anni Glenn andava per la maggiore- e infine Helen Humes, che aveva preso il posto di Billie Holiday nella big band di Count Basie. Ed era lei a infastidirmi, non Marion. Dovevamo cantare a rotazione: io per prima, poi Helen, per ultima Marion. Stavo finendo il mio spettacolo; ero tesa, capirai ero ancora una ragazzina. Beh, sto cantando Lover Man quando dal fondo della sala si fa largo Helen che tira fuori quella sua vociaccia grintosa. Io modulavo la canzone pensando alle coppie di ballerini sospirosi, lei invece la reinventava, la caricava di swing; insomma, mi faceva fare la figura della provinciale. Una rabbia!" e, concludendo, avevo bevuto un altro whisky. "Questo per darti una idea di com'era la New York del jazz negli anni quaranta. Musica straordinaria  ovunque e contest fra tutti: orchestre, cantanti. Era una lotta senza quartiere".   Menu

 

 

 MUSICA AL GRND HOTEL

Nella New York di quegli anni la musica non si ascoltava soltanto al Village Vanguard, al Cafè Society, al Three Deuces e nei club della cinquantaduesima strada, ma anche in alcuni alberghi eleganti. Il migliore, frequentato dalla ricca borghesia bianca, era il Biltmore. Qui si esibivano l'orchestra del trombonista Tommy Dorsey, nella quale cantava Frank Sinatra (che era stato eletto cantante dell'anno sia nel 1941 che nel 1942 da "Down Beat" e "Metronome", le due riviste musicali più importanti, sopendendo Bing Crosby), e quella di Benny Goodman, che aveva come voce solista Peggy Lee, straordinaria interprete di una canzone di Lil Green: Why Don't You Do Right. Ma il più famoso era l'hotel Plaza, all'angolo di Central Park, un lussuoso albergo che spesso organizzava pomeriggi jazzistici. E lì erano Billie Holiday e Ella Fitgerald a esibirsi. Anche al celeberrimo Waldorf Astoria, in Park Avenue, si faceva del jazz, ma in modo più tranquillo e tradizionale: qui era Nat King Cole con il suo trio a tenere banco, oppure il quartetto di Benny Goodman con Lionel Hampoton al vibrafono, Teddy Wilson al piano e Gene Krupa alla batteria. La clientela dell'hotel non consentiva di andare oltre.    Menu

 

 

 ELLA E BILLIE: LE REGINE

 

Ella Fitgerald

 

Billie Holiday

In quegli anni la scena femminile del canto jazz era dominata da Ella Fitgerald e Billie Holiday. Entrambe avevano alle spalle un'adolescenza difficile, ma mentre la prima l'aveva superata grazie a una straordinaria voglia di vivere, la seconda non riuscì mai a liberarsene, rimanendo sempre in bilico tra carcere e ospedale per via della droga. Ella Fitgerald era la cantante per tutti: canzoni non impegnate, una dolcezza istintiva, uno swing naturale. Billie Holiday, al contrario, metteva in ogni suo song una vena dolorosa, un accenno polemico. Ella era dotata di una grande capacità comunicativa; Billie invece era cupa e introversa, segnata da una serie di vicende che l'avevano profondamente ferita. Nel 1947 fu anche arrestata per "occultamento, trasporto e uso di stupefacenti" e dovette scontare in un riformatorio della Virginia oltre un anno di reclusione. Ella, invece, riuscì a tenersi lontana dalle droghe. Ci fu un periodo in cui l'alcol le era un pò troppo familiare, ma anche se soffrì molto di solitudine per i suoi quattro matrimoni sbagliati rimase sempre una donna equilibrata e il suo canto continuò a svettare lieto, colmo di una contagiosa gioia di vivere. Ella discendeva dalla popular song, che doveva essere accattivante, penetrare nell'ascoltatore ma senza impegnarlo troppo. Billie veniva invece dal gospel e dal blues, ossia dall'area rurale e chiesastica del canto, e nei brani che interpretava poneva tutta l'intensità del dramma, senza preoccuparsi di assecondare i gusti del suo pubblico.   Menu

 

 

 ALTRE VOCI NERE

 

Helen Humes

Pur senza la popolarità internazionale di Ella e Billie, anche Helen Humes, mezza nera e mezza indiana Cherokee, fu in quegli anni una stella del jazz. Helen aveva cominciato a cantare da adolescente e subito le avevano fatto incidere per la Oken alcuni blues, ma evidentemente che l'aveva spinta verso quel repertorio non aveva capito la sua voce e le sue doti, che non erano quelle della Bluesinger. Al contrario, pur avendo una voce grintosa dai forti vibrati, era una splendida interprete di balladas. Non sono molte le testimonianze discografiche del breve periodo che trascorse con l'orchestra di Count Basie, ma anche con i suoi gruppi successivi, soprattutto con quello del vibranofonista Red Norvo, la Humes mostrò sempre di possedere qualità vocali di alto livello. Cantanti di un certo interesse furono anche Maxine Sullivan e Marion Hutton, sebbene la loro notorietà non abbia mai oltrepassato i confini dei jazz club americani. La Sullivan lavorò prima con l'orchestra di Benny Carter, poi con il trombettista Charlie Shavers e con il pianista Earl Hines; Marion Hutton è ricordata soprattutto per il suo modo di ritmare le canzoncine di Clenn Miller.    Menu

 

Maxine Sullivan 

 

 

 HELEN FORREST: UNA STELLA BIANCA

Il celebre bandleader Harry James disse una volta che "La cantante della big band doveva avere innanzitutto un bel portamento. Noi avevamo bisogno di ragazze bionde, formose, possibilmente alte, apparentemente accessibili. La voce veniva dopo. Senza dubbio c'erano le eccezioni: certe cantanti erano soprattutto cantanti". Proprio a lui toccò una di queste: Helen Forrest. Praticamente fu la prima vocalist bianca per la quale vennero scritti appositi arrangiamenti. Di solito era la cantante a doversi adattare ai ritmi dell'orchestra. La Forrst no: James le costruiva addosso i pezzi e le faceva iniziare e concludere il brano, lasciandole il merito del successo. E i fatti gli diedero ragione: nel 1942 e nel 1943 "Down Beat" e "Metronome" la elessero cantante dell'anno e alcune delle sue incisioni, come Skylark, vendettero oltre un milione di copie.    Menu

 

 

 CANTANDO CON GRINTA: ANITA O'DAY

 

Anita O'day

Più jazzistica, grintosa, a volte felicemente spensierata, altre volte dolente, era Anita O'day, che si mise in luce con l'orchestra del batterista Gene Krupa, popolarissimo per aver dato vita ai famosi quartetti di Benny Goodman, con Teddy Wilson al pianoforte e Lionel Hampton al vibrafono. Anche lei era bianca, ma la sua adolescenza era stata difficile. Aveva fatto una lunga gavetta; fra i dodici e i quindici anni aveva partecipato a decine di estenuanti walkathons, quelle assurde gare di ballo di moda negli anni successivi alla grande depressione; aveva fatto la cameriera in locali poco raccomandabili; aveva vissuto in modo folle, diventando tossicodipendente prima di vent'anni. La dipendenza dalla droga la costrinse spesso a interrompere la professione per trascorrere in clinica lunghi periodi di disintossicazione. Ma quando cantava aveva un modo dinamico di scandire le sillabe, di farle scivolare sui ritmi, una personalità forte e piacevole. Benny Goodman non l'aveva voluta nella sua band, ma forse era stata lei a farsi bocciare: preferiva improvvisare piuttosto che eseguire ogni sera la stessa melodia: si racconta di un suo Lady Be Good portato avanti per ben dodici chorus (ritornelli) diversi.   Menu

 

 

 LE VOCI DI ELLINGTON

Anche la più celebre orchestra degli anni quaranta, quella di Duke Ellington, si avvalse spesso del supporto delle voci femminili. Nel confronto con gli straordinari solisti che ne facevano parte, però, le cantanti uscivano spesso perdenti, anche perché non era facile essere all'altezza di Ivie Anderson, la vocalist che aveva lasciato l'orchestra nel 1942. Anche cantanti di buon livello, come Joya Sherril, Maria Ellingotn o Retty Roche, finirono per trovarsi spaesate nel clima di questa orchestra eccellente che non aveva bisogno di altre voci che non fossero quelle dei suoi strumentisti. In questo senso Kay Davis fu un'eccezione: interprete alle attitudini più classiche che jazzistiche, sotto la guida del Duca riuscì a ottenere buoni risultati, spesso usando la voce all'unisono con gli strumenti, in particolare con il clarinetto di Jmmy Hamilton.   Menu

 

 

 AL METROPOLITAN CAFE'

Negli anni quaranta la Grande Mela crebbe anche nel sottosuolo, in un oscuro labirinto di sotterranei affollato da un popolo misterioso. Borsaioli a caccia di malcapitati, giocatori d'azzardo, prostitute, barboni che cercavano riparo dal freddo, tutti vivevano sotto Times Square, dove convergevano i treni delle metropolitane in arrivo da ogni parte della città. Proprio lì sopra apriva intanto i battenti il Mtropolitan Cafè, dove musicisti del calibro di Lionel Hampton o Earl Hines suonavano sul bancone del bar in mezzo ai bicchieri degli avventori. Tra puttane e biscazzieri, attori e spogliarelliste, mentre si beveva whisky di pessima qualità, si esibiva nel local anche Dinah Washington, con una voce ancora acerba ma colma di umori solari che, coi gruppi di Hampton, apparivano esaltati.   Menu

 

 

 DINAH WASHINGTON

 

Dinah Washington

Nata in Alabama, Ruth Lee Jones -questo il vero nome di Dinah- era cresciuta a Chicago, dove chiunque avesse un filo di voce veniva chiamato a cantare gospel in qualche chiesa nera. Non ancora ventenne aveva messo in luce un carattere forte, indipendente, venato da un'oscura forma di follia. "Evil Gal", avevano cominciato a chiamarla gli amici, ovvero qualcosa come tormentatrice di uomini. Era bella, camminava come una regina e una volta aveva passeggiato completamente nuda lungo Broadway finchè la  polizia non l'aveva fermata. Cantava se stessa in Evil Gal Blues e prorompeva in Salty Papa Blues: una voce nitida che si colmava di vibrati, aggressiva, sintetica, in certi momenti abbagliante e che, maturando, aveva fuso drammaticamente gospel e blues in una versione ribollente di sing.   Menu

 

 

 LA VOCE SOLISTA DI CARMEN MCRAE

 

Carmen McRae

Versatile ma equilibrata, dotata di un feeling eccezionale e di un'insolita capacità di stemperare in finezze tecniche una voce naturalmente portata alla drammaticità, era Carmen McRae, giamaicana di nascita, ma come uscita dal ghetto nero di Harlem per temperamento e aggressività. Anche lei debuttò negli anni quaranta, ma giunse al successo e alla maturità nei decenni successivi. Nel 1944 Carmen sposò il batterista Kenny Clarke, uno dei protagonisti della rivoluzione del be bop; poco dopo ottenne il suo primo ingaggio da professionista nell'orchestra di Benny CArter e nel 1945 entrò a far parte di quella di Count Basie. Grazie al produttore Milt Gabler diventò quindi una delle stelle della Decca, ma rimase una cantante solista, nel senso che alle sonorità prodotte dalle grandi formazioni preferiva le finezze di un trio in grado di assecondarla sottolineando l'eleganza del suo fraseggio.   Menu

 

 

 I TEMPI IPNOTICI DI HELEN MERRIL

 

Helen Mirrel

Di origine slava, ma dalle intuizioni dinamiche degne di una cantante nera, era Helen Mirrel. Influenzata in un primo momento da Sarah Vaughan, da June Christy, forse anche da Jo Stafford, Helen maturò in seguito una sua personalità che si staccava da tutte le altre: mentre le colleghe miravano spesso alla frenesia ritmica, lei amava i tempi ipnotici, esasperatamente lenti. La sua voce era crepuscolare, colma in una sorta di contemplazione estatica, quasi si sciogliesse in preghiera. Nata con i boppers, Helen Merril non potè cedere alle lusinghe del consumismo: quando ci si provò, finì in un disastro. Incise con il pianista Earl Hines, forse il primo a comprenderne le doti, ma trovò i compagni ideali nei gruppi del trombettista Clifford Brown. Durante anni per lei difficili visse fuori dagli Stati Uniti, girò il mondo fermandosi a lungo anche in Italia, cantando ovunque, ma senza ottenere quei consensi che neritava, fino a quando non fu rilanciata dal pianista John Lewis.   Menu

 

 

 LE ALTRE

L'elenco delle donne che popolarono la scena del canto nella New York degli anni quaranta è praticamente infinito. Vogliamo però ricordare ancora i nomi di tre cantanti di un certo interesse, anche se non proprio famosissime. Più legata al mondo del gospel che a quello del jazz, Della Reese crebbe nel coro della straordinaria Mahalia Jackson, grande madre dello spiritual, conservando una voce innodica anche in certe ballate che esegue con molta dinamicità. Marta Raye è rimasta sconosciuta ai più, ma qualcuno potrà ancora ricordarla in quello show un pò clownesco di cui fu interprete nel film Rhythm on the Range, nel quale cantava Mister Paganini. Infine la bionda, soave (quando non ra sbronza, perchè allora il repertorio delle sue contumelie era in grado di fare arrosire chiunque) Shirley Luster, in arte June Christy, che raggiuns la popolarità nel 1945 con l'orchestra di Stan Kenton, ma che poi si perse nell'alcol e nelle droghe, Lei e molte altre ancora.   Inizio pagina

 

 

 

 

 

 

 

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