IL VOCALESE E LE NUOVE VOCI

 

La generazione di cantanti jazz emersa negli ultimi vent'anni ha recuperato la tradizione dello scat e del vocalese, usando la voce come il più flessibile tra gli strumenti

 

 la voce, uno strumento principe

le canzoni di Tin Pan Alley

il canto Scat

nasce il vocalese

la tradizione di Crooner

voce e ironia

il canto oggi

George Benson: tra jazz e rock

cantando a cappella

in Europa

la voce e gli strumenti

 

 

 LA VOCE, UNO STRUMENTO PRINCIPE

"Sento il suono che amo, il suono della voce umana" : così scriveva il poeta Walt Whitman in Song of Myself. E la voce è lo strumento principe del jazz, genere che affonda le radici nel canto africano "chiamata e risposta", nato dal richiamo con il quale gli uomini avvertivano le donne del loro ritorno dalla caccia e al quale le donne rispondevano con un grido che si faceva cantilena. Oltre a questo, il jazz ha tratto nutrimento dall'innodica delle chiese bianche e nere, ossia da un vocalismo popolare che ha poco da spartire con la grande musica ma che ancora oggi, attraverso le ricostruzioni filologiche che ne vengono fatte, mostra tutto il suo fascino. Certo è che nella New York degli anni ottanta e novanta pochi tra coloro che ascoltavano i nuovi protagonisti del canto jazz pensavano alle origini ormai lontanissime del loro stile vocale.    Menu

 

 

 LE CANZONI DI TIN PAN ALLEY

Dopo aver incontrato le vibranti voci del blues e quelle palpitanti -per religiosità e dinamismo- dello spiritual, fra gli anni trenta e gli anni quaranta il jazz si confrontò con le canzoni di Tin Pan Alley, la strada di New York dove si concentravano gli editori musicali. Proprio per rendersi un pò più appetibili ai gusti dell'America bianca, anche i jazzisti cominciarono a usare quei temi di successo, partoriti dalla fantasia di musicisti come Gershwin, Kern, Rodgers, Porter, Carmichael. I cantanti (ma, ovviamente, anche gli strumentisti) ne apprezzavano la struttura armonica a trentadue misure, che consentiva loro di improvvisare liberamente inventando nuove linee melodiche. Ai grandi modelli del passato -Bessie Smith, Louis Armstrong, Ethel Waters- si sostituirono così le voci di Ella Fitgerald, Billie Holiday, Bing Crosby, Frank Sinatra, Anita O'Day, Nat King Cole, Sarah Vaughan e di altri ancora, mentre cantanti come Dinah Washington o come il sarcastico Louis Jordan proseguivano su un filone più nero, meno propenso alle interpretazioni struggenti.    Menu

 

 

 IL CANTO SCAT

 

Dave Lambert, Jon Hendricks e Annie Ross

Secondo alcuni, anche quest'ultima strada era però troppo commerciale. Si avvertiva il bisogno di un mutamento, una svolta capace di risvegliare la curiosità. I cantanti citati, tutti bravissimi, alcuni anche molto originali, vivevano tuttavia in una sorta di territorio che era ormai quasi incapace di dare nuovi frutti. La situazione cambiò con la riscoperta di Leo "Scat" Watson, un cantante di scarsa popolarità che però aveva già influenzato alcuni grandi artisti, tra i quali Louis Armstrong ed Ella Fitgerald. In un certo senso Leo non cantava; sussurrava, cambiava le parole dei testi, li reinventava a suo e consumo, adoperando la voce come se fosse uno strumento e rendendo dinamiche canzoni che erano spesso dolciastre. L'artefice del rilancio di Watson fu un cantante e ballerino di tip tap di Pittsburg, Eddie Jeferson, subito seguito da Clarence Beeks, meglio conosciuto come King Pleasure. Nel 1952 quest'ultimo portò al successo Moody's Mood for Love, la versione cantata di un solo del sassofonista James Moody, Y'm in the Mood for Love: un tema molto sdolcinato, che lui seppe rileggere in chiave sarcastica. Jefferson non ottenne un successo immediato: cantò con James Moody e Coleman Hawkins, negli anni settanta, quando cominciò a incidere per la Prestige, la Muse, Inner City. Ma la sua opera d'oro fu breve: nel 1979 un folle lo uccise mentre usciva da un locale di Detroit dove si era appena esibito. La sua voce non è mai stata quella che si definisce "da cantante" : poca estensione, poca duttilità. Eppure possedeva un'originalità naturale e sapeva esprimere i sentimenti assai meglio di altri. Anche due musicisti bianchi, Jackie Cain, cantante, e il marito Roy Kral, cantante e pianista nei gruppi del sassofonista Charlie Ventura, cominciarono negli stessi anni a usare uno scat venato di un vibrato umoristico. Le loro voci si possono ascoltare su dischi Coral Storyville, Columbia, Roulette, Capitol: Roy che ripete schemi ritmici e Jackie che inventa melodie fluide e garbate.    Menu

 

 

 NASCE IL VOCALESE

Accanto a loro cominciava a farsi notare Annie Ross, una ragazza inglese vissuta a Los Angeles con la zia, la cantante pop Ella Logan. Annie, che aveva esordito ancora bambina nel cinema accanto alla magnifica Judy Garland e che scriveva testi colmi di verve, aveva una voce da contralto appena intrisa di blues. Insieme a Jon Hendricks e Dave Lambert, Annie formò un trio che esordì nel 1957 con un omaggio a Count Basie e alla sua orchestra. Annie con la voce doveva fare le trombe, Lambert i tromboni e Hendricks i sassofoni. I tre riprendevano gli arrangiamenti originali e poi, singolarmente, rifacevano i soli dei musicisti più noti in quel periodo: Wardell Gray, Buck Clayton; poi Lester Young, infine anche Charlie Parker e Dizzy Gillespie. In pratica il loro modo di cantare si rifaceva al jazz strumentale (in modo meno sistematico lo avevano già fatto anche i Mills Brothers, un trio vocale famosissimo negli anni quaranta): con le voci eseguivano sia la parte orchestrale, sia quella solistica. Affrontavano difficoltà incredibili, perchè mettere le parole a un solo strumentale e a tutte le variazioni che il musicista inventa non è facile. In più ricostruivano il sound dell'orchestra alla quale dedicavano l'omaggio delle loro voci: fu una rilevazione, che li fece diventare un modello per molti altri cantanti. Il critico Leonard Feather, dopo averli ascoltati, coniò il termine "vocalese", con il quale ora si indica il gergo jazzistico vocale che quei nuovi cantanti usavano. Nonostante il successo, il trio non ebbe vita lunga: nel 1962 Annie tornò in Inghilterra e venne sostituita da Yolande Bavan, la cui modesta personalità non poteva competere con la sua. Inoltre nel 1966 morì Dave Lambert e Jon  Hendricks continuò a lavorare da solo (memorabile fu il suo Evolution of the Blues Song, con il quale propose in teatro una lunga carrellata sulle fome vocali del jazz), finchè negli anni ottanta ricostituì il trio con la figlia Michelle e con la moglie Judith. Lambert, Hendricks e Ross sono stati i padri dei popolari Manhattan Transfer, ossia di Janis Siegel, Tim Hauser, Alan Paul e Laurel Massè, sostituita nel 1979 da Cheryl Bentyne. Nel 1981 il gruppo ha venduto quasi un milione di copie con un disco intitolato Mecca for Moderns. I Manhattan sono bravissimi, perfetti, piacevoli ma non certo originali, perchè in realtà non fanno altro che seguire la strada aperta dai primi esponenti del vocalese. E Vocalese si intitola anche un loro disco del 1985 diventato famoso.    Menu

 

 

 LA TRADIZIONE DEI CROONER

Il vocalese non monopolizzò tutto il jazz vocale, ovviamente, anche se è la forma che ha poi generato tutto il canto di oggi, e non soltanto quello jazzistico. Accanto al vocalese continuò infatti la tradizione dei crooner, i cantanti confidenziali, aperta da Bing Crosby e Frak Sinatra e proseguiva dalla voce di Tony Bennet, che ha attraversato l'ultimo trentennio e che ancora tiene banco, o da quella di Johnny Hartman, sbocciata negli anni settanta. il primo si esprime "alla Sinatra", il secondo con un crooning assolutamente nero che certamente gli deriva da Billy Eckstine. Ma Hartman ha un singolare rispetto per la parola. Canta con John Coltrane con Hank Jones e negli anni ottanta incide con Billy Taylor. Alec Wilder, grande compositore di ogni genere, dal pop al classico, lo chiamò a partecipare a una trasmissione radiofonica attraverso la quale voleva restituire dignità alla canzone americana, spesso maltrattata da orchestre messe insieme tanto per far ballare o per fare da sfondo in qualche studio radiofonico o televisivo. Decisamente più jazzistico è Mel Tormè, nato a Chicago, poi californiano, anche per stile vocale, infine newyorchese. Oltre a cantare, Tormè suona il pianoforte e la batteria, fa l'attore con qualche successo e scrive anche romanzi, uno dei quali è dedicato a Judy Garland, con la quale ha collaborato a lungo. La sua voce è una delle poche che siano riuscite ad arrivare intatte fino agli anni ottanta, continuando a insegnare qualcosa ai cantanti più giovani.   Menu

 

 

 VOCE E IRONIA

 

Dizzy Gillespie e Lionel Hampton

Nel jazz esistono anche cantanti improvvisati, ovvero musicisti che si divertono a usare anche la voce. Uno dei loro padri è stato Lionel Hampton, che senza possedere voce riusciva in qualche caso a dare carattere a ciò che borbottava nel microfono. Non parliamo poi di Dizzy Gillespie, un istrione nato, grande attore comico, suscitatore di mille intuizioni nei musicisti che suonavano al suo fianco: quando suonava con il suo scat improbabile, ricco di suoni scanditi, sospiri e alterazioni di note, provocava subito l'applauso grazie alla simpatia che suscitava nel pubblico. Questa sorta di canto ironico, colmo di implicazioni, era proprio anche di Bob Dorough. Scoperto a metà degli anni cinquanta dalla casa discografica Bethlehem, Dorough celebrò Charlie Parker dotando Yardbird Suite di splendide parole. Poeta, attore e pianista oltre che cantante, incise per la Verve e la Fontana. Col tempo il suo stile diventò sempre più raffinato: era un artista da ascoltare nei piccoli club, dove le sottigliezze del suo lirismo spesso venato di un sarcasmo lieve e intelligente potevano essere meglio apprezzate dal pubblico.    Menu

 

 

 IL CANTO OGGI

 

Shirley Horn

Furono loro i cantanti che indicarono al jazz le nuove strade da percorrere, mostrando anche quelle che avrebbero portato al rap. Scriveva Sherwood Anderson in Song for Lonely Road: "Il cantante muore -il cantante vive-Gli dei attendono nel grano-l'anima del canto è nella terra-levate a quella le vostre labbra". Proprio all "terra", ossia alle radici, si rifà il canto di oggi, tornato all'originaria vocalità africana, al falsetto, alla giaculatoria rituale. Forse in questo senso la lezione viene da Shirley Horn, una pianista eccellente e vocalista sofisticata che lasciò la carriera da giovanissima per poi riapparire negli anni ottanta conquistando le platee. Shirley sa trasformare una canzone in una sorta di preghiera: sussurra Estate di Bruno Martino come non sa fare nessun altro, eppure quel brano è entrato nel repertorio di un'infinità di musicisti. Alle radici del jazz torna anche Dee Dee Bridgewater, splendido animale da palcoscenico, in ombra quando cantava con il batterista Max Roach, esplosa quando, in Europa, ha saputo ritrovare il suo feeling un pò selvatico, senza più il freno intellettualistico di Roach. Così è diventata interprete di canzoni; ha trovato in Francia, dove ora vive, una popolarità sulla quale non contava più e ha recuperato tutte le sue doti jazzistiche senza rinunciare alle sue propensioni sceniche.   Menu

 

 

 GEORGE BENSON: TRA JAZZ E ROCK

Ottimo chitarrista jazz, è però nelle vesti di cantante che George Benson ha ottenuto il consenso del pubblico, raggiungendo anche quella sicurezza economica che la chitarra non gli aveva garantito. "Un giorno" ha detto "ho scoperto che davanti allo specchio, facendomi la barba, stavo canticchiando una canzone: non male, mi sono detto e ho pensato che magari mettendomi a cantare avrei potuto fare soldi. Sono un musicista, ho pensato, sono intonato, ho un pò di voce, che diavolo aspetto?". E il successo è arrivato subito, con grande dispiacere dei puristi che, ovviamente, lo preferivano come chitarrista. Ora la sua musica è qualcosa che si situa a cavallo fra jazz e rock, con qualche venatura bluesy.   Menu

 

 

 CANTANDO A CAPPELLA

Con i Take 6 Bobby McFerrin, negli anni ottanta e novanta riesplode anche il vocalese. I Take 6 sono un gruppo di ex studenti universitari che cantano a cappella -ovvero senza alcun accompagnamento strumentale- con una precisione millimetrica, pur senza tradire lo swing e lo spettacolo. Affermatosi nella seconda metà degli anni ottanta, il gruppo inaugura anche una sorta di nuovo costume jazzistico, riabilitando la religione che peraltro, in forme diverse, era già entrata nella musica afroamericana. Prima di ogni concerto i sei si riuniscono infatti in meditazione, e le loro canzoni contengono spesso un ringraziamento a Dio. Quanto a Bobby McFerrin, egli è un cantante dalle doti raffinatissime. Bobby tiene concerti in assoluta solitudine, aiutandosi solo con il battito delle mani. I suoi spettacoli raggiungono un'intensità che supera i limiti dell'interpretazione jazzistica facendosi musica senza etichette. Bobby usa la voce non come uno strumento, ma come cento strumenti, controllando ogni suono, ogni respiro, ogni sussurro, ogni grido, perfino ogni gesto. Il suo canto è un rincorrersi di espressioni onomatopeiche. Più che cantare dialoga con se stesso e con il pubblico, suscitando effetti eccellenti. Agli inizi questo modo intellettuale di interpretare il jazz non ha avuto successo; poi anche il grande pubblico ne ha capito l'eleganza e a metà degli anni ottanta sono cominciati gli applausi, che si sono presto trasformati in ovazioni. Sullo stesso stile, ma meno sofisticato, è Al Jarreau, un artista che si muove fra canzone e jazz, teatro e musica: ogni suo concerto è un concentrato di atteggiamenti mimici, di lazzi e di improvvise impennate swing. Un attore, insomma, oltre che un vocalista. Racconta: "Debbo per forza essere popolare: a quattro anni cantavo già e certo non avevo idee sulla ricerca. In casa mia tutti facevano musica: mia madre era pianista, mio padre un predicatore che suonava molti strumenti e anche i miei sei fratelli suonavano. Mi affascinava la voce di Armstrong, poi quella di Fitgerald e imitavo ora l'uno ora l'altro. Era un gioco, non un mestiere. Poi, a furia di dar retta aggli amici...". E così, sia pure in forma più colta, la pèolacca Urszula Dudziak, una cantante dall'eccezionale estensione vocale. Il suo stile, vicino allo scat, è ricco di trilli, di growl e di effetti sonori straordinari, ricreati anche grazie all'impiego di apparecchi elettronici.  Menu

 

 

 IN EUROPA

Anche il canto europeo, in questi anni, ha svelato talenti originali: Julie Tippetts per esempio, o meglio ancora Maggie Nicols, Karin Krog e Marc Beacco: anche queste voci sembrano raccogliere esperienze diverse. Muovono dalla canzone, ma poi incontrano il vocalese. Il canto, insomma, diventa insieme più sofisticato e più provocatorio: basterebbe ricordare la voce colma di umori vibranti di Cassandra Wilson o quella di Jayne Cortez, una poetessa che interpreta i suoi versi in una sorta di rap intellettuale. Partito dalla vibrante naività del blues, il jazz è dunque arrivato ai sofisticati intrecci di una poesia che, per meglio colpire la fantasia di chi ascolta, si accende di musica.   Menu

 

 

 LA VOCE E GLI STRUMENTI

Qualcuno assicura che la prima forma di vocalese risale a un'incisione di Marion Harris, che nel 1934 aveva ripreso, in Singing the Blues, i soli del trombettista Bix Beiderbecke e del sassofonista Frankie Trumbauer. Ma senza andare tanto indietro nel tempo, basterà dire che si tratta di un genere di jazz vocale che si rifà a quello strumentale. Si prende un tema famoso e lo si ricostruisce minuziosamente con la voce, imitando di volta in volta gli strumenti solisti, ossia il sassofono, la tromba e il trombone. Quando Sidney Bechet cominciò ad alternare il clarinetto con il sassofono soprano, lo strumento era ancora praticamente nuovo: era stato inventato nel 1840 da Adolphe Sax, che lo aveva concepito per impiegarlo nelle bande. Bechet lo scoprì nel 1910 a Londra proprio ascoltando una banda, e quando nel 1919 tornò a New Orleans ne portò uno con sè. In seguito entrarono nell'uso anche altri sax della famiglia, il tenore, il contralto e il baritono. Così al trio classico di New Orleans -tromba, clarinetto e trombone- si unì, soprattutto nel dixieland i Chicago, anche il sax. Ma fu lo swing a renderlo popolare: furono infatti artisti come Coleman HAwkins e Lester Young a trasformarlo nel simbolo stesso del jazz. La tromba e il trombone, provenienti anch'essi dalla banda, la tromba e il trombone non hanno subito particolari modifiche. Alla tromba si è affiancato il flicorno, nato intorno al 1850, dal suono meno squillante, dal timbro morbido e dolce e quindi più adatto a interpretare una ballata, mentre al trombone a pistoni -ovvero con una tastiera simile a quella della tromba- si è preferito quella a coulisse, col quale si mutano le note variando la lunghezza della canna.   Inizio pagina

 

 

 

 

 

 

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